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UNGARETTI TRA TORMENTO E PASSIONE di Giusi Vaccarino

 

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Ogni mano poetica è quella di un’anima. E se l’anima è quella di Giuseppe Ungaretti allora ogni verso, ogni parola che muove dal di dentro, si personificano e si ammirano all’esterno. La prof.ssa Giusi Vaccarino del Liceo Lucio Piccolo di Capo d’Orlando ci accompagna nei sentieri della passione che furono del poeta di Alessandria d’Egitto, con aneddoti e suggestioni che rimandano a mondi e paesaggi di un tempo che non passa mai: quello della letteratura. La ringraziamo per il suo notevole contributo.    

Incessantemente riecheggiano negli animi inclini alla bellezza i versi adamantini che celebrano un’adamantina mattinata:

Mi illumino di immenso.

Perfetta e sublime sintesi dell’esperienza ermetica di questo nostro autore. Fiumi di inchiostro sono stati impiegati per sviscerare l’operazione poetica compiuta da Ungaretti: nell’universo ordinato e codificato dalla lirica dannunziana, dove galassie di accecante splendore si costituivano dall’incontro di parole accuratamente selezionate per ricercatezza, portata fonica, forza evocativa, e dove ogni verso si inarcava in architetture perfette, egli innesca una deflagrazione di portata cosmica, che polverizza la concezione poetica precedente.

Un solo elemento si salva, quell’unica cifra autentica che Ungaretti percepisce come viatico salvifico e al quale si avverte l’esigenza di ritornare: la parola. La parola nuda. Pura. Gravida.

Poiché essa soltanto racchiude una potenza che, se sprigionata, da sola può avviare la ricostruzione di un rinnovato orizzonte poetico, di un nuovo universo in espansione.

Tornare alla dimensione primigenia, per caricare di un nuovo significato il dato fattuale, storico e, soprattutto, autobiografico; astrarre un elemento dal quotidiano, denudarlo da orpelli e contingenze, e ricondurlo allo status originario; infine, sfruttare la forza creatrice della parola che trova la sua sede e istituisce legami simbolici, densi di significato, all’interno del verso libero. È questa l’azione che la prima poesia ungarettiana si propone di attuare.

E come percorrere questa distanza spazio-temporale o, meglio, esistenziale, se non attraverso l’uso dell’analogia? Strumento così caro a quel simbolismo francese, che così tanta parte ebbe nella crescita personale e culturale del poeta.

Dunque Ungaretti, giunto al punto di rottura all’interno di una temperie culturale caratterizzata da decine di spinte centrifughe, opera questa sua rivoluzione poetica, che tanta scuola farà qualche decennio più tardi.

Ma questa è storia nota. È la storia di Allegria di naufragi, de Il porto sepolto e de Il sentimento del tempo.

La parabola di vita del poeta lo conduce successivamente ad attraversare quell’esperienza che fu Il dolore, lo schianto esistenziale legato alla morte del figlio Antonietto. E il sentimento disperato trasuda dai versi, ricomposti in un levigato lepore originato dalla rilettura dei classici, da Petrarca a Leopardi. Tale revisione ha prodotto il recupero delle forme tradizionali, prima fra tutte l’endecasillabo.

Ecco però che, al di là del valore strettamente letterario della produzione ungarettiana, non si può non cogliere la grande carica vitale che, dalle prime prove poetiche alle rime del Dolore, anima, accende e informa di sé tutte le liriche. Il sentimento si fa fuoco liquido che dilaga e travolge, sia esso suscitato dal respirare le profondità marine, dall’ accartocciarsi su se stessi per sprigionare l’angoscia o dall’innocente e appassionato stupore dell’alba:

Mi sento la febbre

di questa

piena di luce

Accolgo questa

giornata come

il frutto che si addolcisce

Avrò

stanotte

un rimorso come un

latrato

perso nel

deserto

 

                                                                              Immagine dalla rete

G. Ungaretti, Godimento, in Vita d’un uomo, Oscar Moderni, 2021 

La vita di quest’uomo, un uomo normale, di carne e ossa, sangue e passione, finisce per identificarsi nella sua stessa poesia. Poesia come vita. Letteratura come vita. Perché la scrittura non è per lui mero esercizio ma trasposizione poetica delle pieghe dell’anima e dei moti profondi che generano turbini negli abissi, per poi riemergere in superficie. Non a caso, infatti, ricorre frequentemente nelle liriche il tema del naufragio, che assume un’accezione distruttrice e catartica ad un tempo.

L’acuta sensibilità che anima questo spirito veemente, l’intuito che gli accende epifanie rivelatrici, si dispiegano con la stessa intensità durante tutto il corso della sua vita. L’Ungaretti maturo vivrà, al pari del suo giovane alter ego, con la medesima caparbietà ed il medesimo pathos.

Anzi. Più avanza il poeta sul sentiero della vita e più diventa pressante l’inscindibile dualismo di Eros e Thanatos. Quale potenza, dunque, nella sua capacità di amare! Quale forza totalizzante, sublime pienezza di vita! Dimensione in cui l’erotismo trascende, si carica di carne e di spirito e si fa parola, innescando una reazione devastante. C’è in questo, molto di quell’attitudine barocca che alcuni gli hanno attribuito.

La sua necessità di amare (perché di necessità si tratta) si dipana, disegnando arabeschi e giravolte, per tutti i suoi ottantadue anni. Sposò a vent’anni una donna francese, Jeanne Dupoix, dalla quale ebbe tre figli. Fu un matrimonio felice, caratterizzato dalla ricerca di una condizione di vita stabile, che garantisse serenità alla sfera domestica. Ma nel 1958 Jeanne morì, e Ungaretti si sentì naufragare ancora una volta. Notevole è il fatto che avvertì la necessità di sfogare questo suo dolore in una lunga lettera a Marthe Roux, suo amore di gioventù mai dimenticato, “la ragazza esile” di alcuni suoi componimenti, amore conteso al suo fraterno amico Apollinaire.

La spinta vitalistica che accende i sensi fa divampare un nuovo incendio. Accade quando Ungaretti aveva settantotto anni e conosce Bruna Bianco, ventiseienne poetessa italo-brasiliana, durante una conferenza tenuta a San Paolo, in Brasile. Con lei Ungà, così il poeta cominciò a firmarsi, intrattenne una relazione durata tre anni. Tre anni fecondi di versi infuocati:

Sei comparsa al portone

In un vestito rosso

Per dirmi che sei fuoco

Che consuma e riaccende.

Una spina mi ha punto

Delle tue rose rosse perché succhiassi al dito,

come già tuo, il mio sangue.

Percorreremo la strada

Che lacera il rigoglio

Della selvaggia altura,

Ma già da molto tempo

Sapevo che soffrendo con temeraria fede,

l’età per vincere non conta.

Era di lunedì,

per stringerci le mani

e parlare felici

non si trovò rifugio

che in un giardino triste

della città convulsa.

 

G. Ungaretti, Era di lunedì in Vita d’un uomo, Oscar Moderni, 2021

 

                                                                     Immagine dalla rete

I due vissero momenti di tenero sentimento, sempre animato da una ricerca poetica condivisa.

Così scriveva Ungà alla sua amata: “Certo, Bruna, che t’amo, e con quale smisurata demenza. Non ti dicevano gli stupidi telegrammi che ti mandavo dalla nave quando non avevo altri mezzi, che mi eri di continuo presente? Di continuo, di continuo… Amo per l’ultima volta, e come non ho mai amato, con disperazione. Sei il mio sogno della fine, assurdo, stupendo, orrendo. Ti sogno a occhi aperti, ti sogno nel sonno, sono in uno stato di sogno continuo, e so che sognarti è per me, non può essere per me che la cosa l’atto più amabile e più crudele che ci sia. M’è rinata nel cuore la poesia, l’ha fatta rinascere la gentilezza d’una pura voce di poesia; ma ciò che è, è, e non c’è Mefistofele che lo sappia mutare.”   (laltroveappuntidipoesia.com)

Un paio di volte Ungaretti torna in Brasile; altrettante volte Bruna viene in Italia. Vorrebbe che il poeta si trasferisse a San Paolo, ma egli comincia ad avvertire i segni della malattia. L’ultimo messaggio le giunge sotto forma di dedica in un libro, datata 6 novembre 1969: 

"L’amore mio per te arde

sempre sotto la cenere". Unga’.

G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Oscar Moderni, 2021

 

                                                                               Immagine dalla rete

Ungà saluta la sua Bruna con l’amarezza doppia dell’addio all’amata e del lento commiato dalla vita.

Si sarebbe dunque portati a pensare che la Bianco sia stata l’ultimo fuoco di una vita così intensamente vissuta.

E invece c’è ancora spazio nel cuore del poeta. C’è ancora sangue caldo nelle sue vene. C’è il desiderio della splendida Dunja, figura imprecisata di una giovane donna croata.

Ebbene.

Lo scatto finale ingenera ed è ingenerato da un nuovo ardore, che si traduce nei versi de “L’impietrito e il velluto”. È l’ultima poesia scritta da Ungaretti e porta la data “Roma, notte del 31 dicembre 1969 – mattina del 1° gennaio 1970”; verrà pubblicata il 10 febbraio 1970, giorno in cui il poeta compie ottantadue anni. È inserita nella sezione Croazia segreta.

 Ho scoperto le barche che molleggiano

Sole, e le osservo non so dove, solo.

Non accadrà le accosti anima viva.

Impalpabile dito di macigno

Ne mostra di nascosto al sorteggiato

Gli scabri messi emersi dall’abisso

Che recano, dondolo del vuoto,

Verso l’alambiccare

Del vecchissimo ossesso

Le eco di strazio dello spento flutto

Durato appena un attimo

Sparito con le sue sinistre barche.

Mentre si avvicendavano

L’uno sull’altro addosso

I branchi annichiliti

Dei cavalloni del nitrire ignari,

Il velluto croato

Dello sguardo di Dunja,

Che sa come arretrarla di millenni,

Come assentarla, pietra

Dopo l’aggirarsi solito

Da uno smarrirsi all’altro,

Zingara in tenda di Asie,

Il velluto dello sguardo di Dunja

Fulmineo torna presente pietà. 

G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Oscar Moderni, 2021 

Versi formidabili, che trasudano vita, passione. Ritorno alle origini.

Bisogna infatti soffermarsi un attimo a raccontare una parte importante dell’infanzia di Ungaretti, rievocare gli anni in Egitto, tra dune e miraggi. È lo stesso autore che, in Croazia segreta, rievoca la figura della vecchia, tenerissima balia croata, anche lei di nome Dunja, che lo aveva cullato con le sue nenie, cantilene che ricalcano il respiro eterno ed immutabile del deserto. Egli continua il suo racconto confessando, tra commozione e pudore, come gli occhi di velluto della novella Dunja lo abbiano riportato in quella lontana dimensione perduta: 

“Quando persi mio padre, nel 1890, e avevo solo due anni, mia madre accolse in casa nostra, come una sorella maggiore, una vecchia donna, e fu la mia tenerissima, espertissima fata.
Era venuta tanti anni prima in Egitto dalle Bocche di Cattaro dove risiedeva, ma era per nascita più croata, se possibile, che non sia la gente delle Bocche.

Lo stupore che ci raggiunge dai sogni, m'insegnò lei a indovinarlo. Nessuno mai si rammenterà quanto se ne rammentava lei, di avventure incredibili, nè meglio di lei le saprà raccontare per invadere la mente e il cuore d'un bambino con un segreto inviolabile che ancora oggi rimane fonte inesauribile di grazia e di miracoli, oggi che quel bimbo è ancora e sempre bimbo, ma bimbo di ottant'anni.
Ho ritrovato Dunja l'altro giorno, ma senza più le grinze d'un secolo d'anni che velandoli le sciupavano gli occhi rimpiccioliti, ma con il ritorno scoperto degli occhioni notturni, scrigni di abissi di luce. Di continuo ora la vedo bellissima giovane, Dunja, nell'oasi apparire, e non potrà più attorno a me desolarmi il deserto, dove da tanto erravo.

Non ne dubito, prima induce a smarrimento di miraggi, Dunja, ma subito il bimbo credulo assurge a bimbo di fede, per le liberazioni che sempre frutterà la verità di Dunja.

Dunja, mi dice il nomade, da noi, significa universo.

Rinnova occhi d'universo, Dunja”. 

Questa dunque la storia dell’esistenza di un uomo che tanto ha saputo strappare alla vita e che ne ha estratto la suprema essenza fino all’ultima goccia. La storia di un uomo che, coerentemente con la sua poetica, ha chiuso il suo cerchio tornando a quella dimensione primigenia da cui è partito tutto. I velluti di Dunja, l’analogia che lo ha catapultato al punto zero:

Il velluto dello sguardo di Dunja

Fulmineo torna presente pietà.


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