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BREVE STORIA DI UN BAMBINO E DI UN’ANTENNA di Luciano Armeli Iapichino

 


Le antenne RAI di Monte Soro nel 1958 (Immagine dalla rete)



È il 1958. L’umanità è in pieno fermento di modernizzazione. Per un satellite che si disintegra (lo Sputnik si sbriciola al suo rientro nell’atmosfera) ce n’è un altro che lo rimpiazza (gli USA mettono in orbita l’Explorer 1).
L’EURATOM e la NASA diventano realtà. L’Italia, per quanto riguarda le cose del cielo, vola a modo suo e per il momento con Domenico Modugno e la sua Nel blu dipinto di blu che fa, ugualmente, il giro del mondo.



La RAI ha avviato il potenziamento della sua rete televisiva e radiofonica a MF. A Monte Soro, 1847 m s.l.m. nel cuore dei Nebrodi, installa uno dei più potenti centri trasmittenti. Gli antennoni, che dominano le Eolie, l’Etna e sconfinati ettari di bosco, sono “vivi” ancora oggi.



1959. Ai piedi di questi imponenti mostri di ferro, nel silenzio loquace della biodiversità mediterranea, vi è un bambino dodicenne che, tra fantasia e sogni, li ammira stupito per ore e ore.

Le antenne, che già sono torreggiantissime, a lui sembrano ancora più alte: una sorta di scala verso il cielo. Si potrebbe approfittare, di tanto in tanto, per imbastire una chiacchiera con Dio. Ma le interlocutrici privilegiate sono altre e sono tante: capre, pecore e vacche. Il bambino è un pastorello. E per cinque volte l’anno, tra andate e ritorni a seconda delle stagioni, delle specie e dei tempi di gestazione degli animali, c’è da fare la transumanza: Monte Soro – Siracusa. Quasi duecento chilometri di mulattiere, Trazzere Regie, vallate e distese. A piedi.

Venti giorni e venti notti di cammino. Con il papà. 



Parco dei Nebrodi, foto di N. Serio


 A volte capita che le mandrie invadano proprietà private con relative seccature o che restino bloccate per giorni dinanzi ai torrenti in piena nei mesi autunnali e primaverili.

La natura, un ombrello, il pane fatto in casa, il modesto companatico, il pensiero di svernare ed estivare ogni sua bestiolina e, poi, di riveder le antenne, sono il senso della vita di quel bambino. Null’altro. Anzi no: bisogna vincere la paura delle fredde notti, a tratti in solitaria, quando le giovenche si dispongono in fila indiana da creare un serpentone itinerante talmente allungato da perdere il contatto con la testa del gruppo. Nunzia, la madre del piccolo pastore, l’unico maschio di cinque figli, sa bene che lo rivedrà, ogni volta, dopo interminabili settimane: aspetta il marito e il figlio nella sua casa di Vallevena, una piccola contrada di Tortorici con periodici pellegrinaggi al “misteru”, l’edicola votiva della Madonna della Scala, sempre misericordiosa e miracolosa. Devoti le sono, tra gli altri, “alcuni marinai scampati a un naufragio sulle acque antistanti il fiume Zappulla1 e devoti le sono gli oricensi alla fine della seconda guerra mondiale che scalzi si sono recati sino alla piccola nicchia di Portella Calcatizzo per aver avuto la cittadina risparmiata dai bombardamenti anglo-americani.2


Una storia, la sua, così lontana da questa realtà, così impensabile oggi, che rimanda alla valutazione di come sia potuto cambiare il mondo radicalmente e con esso il significato di opportunità, di comodità, di apprensione, di sacrificio e di sopportazione, il valore del tempo, di gioia.

Di antenna e di elettronica. E persino di stupore.

Storie di vita quotidiana, di difficoltà, di generazioni laboriose inebriate dal profumo di una terra che non c’è più, e legate ad una tradizione e ad una memoria, di contro, nebulizzate oggi da un accelerato, consapevole, insensato suicidio verso il nulla. Un mondo, questo di non so cosa, di superflua iper-tecnologia con a bordo pochissimi passeggeri e molti posti vuoti. In miliardi sono rimasti disorientati e senza bussola.



Copertina del libro di cui alla nota 1. Foto di gruppo di oricensi del 1958


Ascolto le storie di questo bambino volentieri.

A volte vedo le immagini dei colori di quel tempo nei suoi occhi. La sua emozione ancora intatta, pura, puerile. Ogni suo racconto è per lui un momento di festa, un motivo di vanto, una lacrima nostalgica. Un flashback della sua infanzia negata ma paradossalmente felice. Strafelice.

Il pensiero alla sua antenna.

Tutti lo chiamano Janu. Quel bambino è mio papà. Ne sono orgoglioso. 


Note


1 Benedetto Lupica, a cura di, Sceti e scitìsi. Per non dimenticare uomini e cose, 2018, Agorà, p. 40.

2 Si ringrazia Antonino Gaetano Liuzzo Scorpo per la preziosa testimonianza.


Riproduzione Riservata.


Commenti

  1. Caro Luciano, il tuo racconto esprime in poche pennellate, il gioco tra ciò che vi è di autentico nella vita e ciò che tenta di annullarlo con l'affermazione seduttiva della tecnologia. I valori si nutrono nei sogni e nell'immaginario dei bambini. Bisogna conservarne la fragranza spirituale, per gustarne il significato esistenziale quando la dittatura tecnico-scientifica secolarizza, come oggi, le aspirazioni a operare secondo il vero bene. E tu sei riuscito a trovare il modo giusto per trattenere nel ricordo il bene che un ex bambino alimenta nel suo cuore fino ad oggi.

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    Risposte
    1. Cara Alfia, è cambiata la qualità dei sogni... che poi sono la molla dell’evoluzione umana.

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  2. Intorno a quell'antenna si è mossa un periodo della storia della mia famiglia. Erano anni di rinascita, il paese, Cesarò, vedeva con soddisfazione il ripetitore della RAI, eravamo collegati al mondo ed in qualche modo garantiti; vedeva con curiosità gli operatori ed i carabinieri che lo facevano funzionare e che lo custodivano. Gente che a volte rimaneva mesi bloccata dalla neve.... era un punto di arrivo di escursioni, una cima comunque da raggiungere, un punto di incontro di tante storie.

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