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SU UN’IMMAGINARIA PANCHINA TRA VENTI DI ZAGARA E DI PANDEMIA DIALOGANDO CON PAOLO BORROMETI di Luciano Armeli Iapichino

Per chi, come me, vive nel cuore del Mediterraneo, in Sicilia, ripensando alla sua storia millenaria, ai suoi uomini migliori, ai suoi martiri, ai suoi mandorli, alle sue architetture arabe e barocche, alle arsure, tra l’olfatto di ginestra e di zagara, e possiede un genoma per così dire “insulare”, nuotare, specialmente in periodi tristi come questi, dentro quella dimensione tipicamente nostrana fatta di aneddoti, sapori dell’anima, orizzonti eoliani e infinite storie, è cosa naturale. È vitalità. È sicilianità. È pensiero che nasce dalla visione di un sagrato, di una piazza, di un cappero, da un’espressione dialettale. Troppe civiltà. Troppe eredità. Sterminati stimoli. Un tempo c’era la corrispondenza epistolare, certamente più affascinante, per l’attesa, per l’inaspettato, per la calligrafia di chi aveva speso del tempo a scriverci e che delineava, anche, la fotografia del mittente, con i suoi occhi, il suo pensiero, il suo tormento, le sue felicitazioni, le sue fibrillazioni inte