(SPECIALE CULTURA) IL SALOTTO LETTERARIO DI UNA SICILIA E DI UN TEMPO CHE NON ESISTONO PIU’. IL NOVECENTO DI NINO FERRAU’ di Luciano Armeli Iapichino
La straordinaria parabola culturale di un
bambino/poeta in un tempo, il Novecento, segnato da devastazione storica e
vibrazione letteraria. Di seguito alcuni momenti significativi della vita di
Nino Ferraù e di alcuni aneddoti ad essa connessi. Lo sterminato canzoniere del
poeta siciliano ruota intorno a svariati nuclei dominanti: il rapporto col
divino, la riflessione sul mistero della poesia, il ruolo del poeta, l’amore,
gli affetti familiari, il dialogo con Dio, gli avvenimenti storici e di cronaca
novecenteschi.
I brani sono tratti da Nino Ferraù. Un intellettuale. La sua anima. La sua epoca, (a cura di) Luciano Armeli Iapichino, Leonida Edizioni, Rende (Cs), 2015.
È in corso di pubblicazione il corposo e inedito
epistolario amoroso di Nino Ferraù a cura dello stesso autore e di Antonio Baglio, Università di Messina.
Sicilia anni Trenta, in un borgo
sperduto sui Nebrodi
Dentro la casa di un calzolaio,
don Vincenzo che è pure capobanda musicale, un bambino gioca.
Circondato da un clarino, un
mandolino e una chitarra, l’infante costruisce note.
Il suo pentagramma tuttavia è
anomalo. Non è quello musicale. Il suo spartito musicale non ha nulla a che
vedere con i tagli addizionali: è quello dell’anima. Le sue note sono rime, la
sua unica chiave è quella del cuore. Il suo giocattolo, la poesia. Altro
passatempo: centrare con i sassolini i vetri di qualche commerciante e fuggire.
È il 9 maggio del 1936: sono i
tempi dell’Abissinia fascista. Nella piazza del paese è stata posta una radio a
batteria (non c’è ancora la corrente elettrica) amplificata da un altoparlante.
Alle prime dichiarazioni solenni di Mussolini si eleva, all’unisono, un coro
chiaro da parte degli astanti richiamati da “quella voce” che sembra burlare i
presenti: “Chisti ni pigghiunu pi fissa.
C’è unu chi parra da dintra!”
Don Vincenzo, uomo colto grazie alla sua sesta elementare e amante
della libertà dell’universo, si diletta nella lettura della Gazzetta, “cincu sordi di minzogni”, impregnata di
toni fascisti: è un irriducibile antagonista del regime.
Donna Concetta, la madre, che di figli da crescere ne ha tre, sul
futuro del piccolo poeta, non usa mezzi termini: “Nun pinsari a poesia! Nun ti ‘nni duna pani!”
Lassulu in paci a stu carusu!, fa tempestivamente eco il marito.
Come a ribadire: a ognuno la propria strada.
1948, Napoli: studio di Benedetto
Croce
Il distinto scrittoio in mogano è
appesantito da tomi universali e da spezzanti fallimenti relazionali: lo
scontro ideologico e titanico con l’amico Giovanni
Gentile ne costituisce l’esempio più efficace.
Oltre i feedback con Ariosto,
Dante, Shakespeare, Goethe, Manzoni, Leopardi, Carducci, Vico, Kant, Schelling,
Hegel e tanti altri soggetti, Croce
aggiunge lavoro ad altro lavoro: la teorizzazione di una carta costituzionale.
È membro dell’Assemblea Costituente.
A ogni modo, lo storico apre a
caso alcune pagine di alcuni anonimi volumi di un ignoto poeta inviati per una
fugace attenzione da Francesco Sapori.
Contravvenendo all’ordine delle priorità e nell’immensità del sapere veicolata
da certi giganti, Croce scrive una
sua valutazione:
Così carico di lavoro come sono, non pensavo di poter
riuscire tanto presto a leggere i tre volumi […], cortesemente inviatemi. Ma la
lettura della prima pagina mi ha costretto a leggere tutto il volume, e la
lettura del primo volume mi ha incoraggiato a leggere anche gli altri. Questo
giovane è molto più vecchio dei suoi anni; una sete di universale lo distingue
e lo trasfigura […]; e infine quel sostenere “la fede nella fede” […]; è una
fede oculatissima […]. Il dinamismo creativo […] mi fa prevedere che egli
scriverà in avvenire opere più forti e impegnative di queste, e mi rammarico
che non potrò conoscerle, perché quando egli sarà nel primo meriggio della sua
maturità di pensatore e poeta, io non sarò più tra i vivi.
B. Croce
1952, Parigi: Lungosenna
Un giovane turista passeggia.
Respira le fascinazioni dell’universo culturale parigino in piena solitudine.
Interpreta con sessant’anni d’anticipo il protagonista del capolavoro
cinematografico di Woody Allen, Midnight
in Paris. La Gazzetta del Sud di sabato 5 ottobre 1985, quasi a fermare il
tempo della bella époque del nostro poeta, scriverà: “Giudizi positivi hanno espresso su Nino Ferraù numerosi critici
italiani e stranieri; da Croce a Camus, Gide, Flora …”
1954, Galati Mamertino
Giù per l’ostica discesa della
vecchia via Roma, un edificio si erge a piccolo ma signorile tempio del sapere.
È la scuola. Dentro quelle aule rimangono soltanto l’autorità del Ventennio e
la Patria. Il corredo scolastico è povero, le aule spoglie, le matite e le
penne a calamaio scrupolosamente guardate a vista dai discenti come preziosi
cimeli personali. D’inglese c’è solo il nome di Winston Churchill nel
sussidiario di storia. L’informatica è l’idea o nozione incomprensibile da
relegare in un remoto futuro. È la scuola elementare dove insegna il nostro
maestro-poeta.
Nino Ferraù dinanzi alla bara ancora aperta di un Salvatore Quasimodo
“dormiente” avvolto in un drappo nero
1968, Napoli Mergellina
“L’arco costiero trova il suo sostegno nella mole
bicipite del complesso vulcanico Somma-Vesuvio, che si mostra imponente a
sinistra dell’orizzonte. Rileva l’ameno paesaggio, la linea spezzettata della
bianca scogliera frangiflutti. Nel blu profondo del mare cercano il loro
precario equilibrio le variopinte barche del porticciolo. Castel dell’Ovo, come
un gendarme normanno forte nella sua armatura dorata, protegge la baia sin
dall’età medievale. Ecco Capri stagliarsi di fronte a noi. Come profilo di
donna sdraiata: sembra Partenope, la sirena che cullata dallo sciabordio dei
flutti, cerca di sopire in un mitico sonno le pene d’amore”.
(La poetica descrizione del
paesaggio di Mergellina è di Daniela
Mantice, storica dell’arte campana e poetessa)
È il 14 giugno. La malinconia che
serpeggia in una fredda sala d’ospedale e la leggerezza di un idillio
paesaggistico di alessandrina memoria, si amalgamano, come una resa che segue
alla cruenta battaglia, in un doloroso spazio di memorie.
All’alba, fine dell’afflitto
feedback notturno di echi esistenziali, un uomo veglia un amico. Non uno
qualunque ma il degno rappresentante di una rara civiltà avulsa dalla barbarie,
impegnato fermamente a “rifare” l’uomo e iniziarlo a un nuovo respirare nel
mondo: Salvatore Quasimodo, il Nobel
di Modica, spettatore della tragedia di un’umanità ferita dalla stolta violenza
dei mortai, sepolta dalla polvere desertica delle distruzioni, ammassata tra
muri graffiati, sfigurata nei purpurei carnai di jungeriana memoria.
Dove ti sei
nascosta/ anima del Poeta? Sei nel vento/ che si frange ad “aeri precipizi”/ o
nella traiettoria della gazza/ nera che per te rise tra gli aranci?/ Io lo so
dove sei. Dove la voce/ non ha labbra e non stampa/ orme il piede, e si spoglia
l’esistenza/ d’ogni sua scorza rude/ e, mai vinta, rimane la Poesia/ al di là
della pagina che si apre,/ al di qua della bara che si chiude. (A Salvatore
Quasimodo di Nino Ferraù)
Questo è il canto che pone fine a
un’intensa corrispondenza epistolare, strumento attraverso cui, con l’immenso Quasimodo, l’amico-poeta aveva
dissertato sui voli più reconditi della sensibilità umana, i modelli
ermeneutici cui affidare la voce dell’anima, le strutture e le forme
linguistiche di cui l’inespresso si sarebbe dovuto “vestire” per varcare
formalmente la soglia della visibilità.
Confronto a volte aspro,
travagliata dialettica positiva, che l’uomo sempre serio e vestito di blu
istruiva più che con l’autore di Giorno
dopo giorno, con la dimensione letteraria di cui egli aveva svelato la
suggestione: l’ermetismo. La poesia delle ossa la definiva, e poesia fu:
Non dispiace
la cura dimagrante/ neppure alla poesia,/ ma dispiace arrivare fino a tanto/ da
metter fuori le ossa./ Dimagrita è ancor viva,/ scarnificata è morta./ Ogni
volto ha una sua fisionomia/ fin quando ha carne e pelle/ ed è la carne che far
crescer l’osso/ ma tutti teschi invece si somigliano/ e non hanno più moto
anima e canto./ Così le poesie/ se sono ossi soltanto.(La poesia delle ossa di Nino Ferraù)
3 settembre 1983: Venezia, Lido
La laguna è in pieno fermento. Il
cinema mondiale, al cospetto della Serenissima, è frammentato sulle gondole,
metafora d’amore per eccellenza, che fungono da vero e proprio red carpet
disteso sui romantici flutti del Canal Grande, ondulanti prosatori di magiche
atmosfere per le sensualissime dive e gli irresistibili attori. La scena è
pienamente goduta, dall’alto, dai gabbiani reali che fungono da distinta platea
integralmente appagata dalla visione del fervore sottostante.
Bernardo Bertolucci, presidente di giuria, assegnerà il Leone d’oro
alla pellicola Prénom Carmen, di Jean-Luc Godard. Giuliana Berlinguer
con Il disertore, spaccato di
un’Italia mutilata dalla grande guerra e in pieno fermento pre-fascista, e Pupi Avati con Una gita scolastica, amorosa tensione pirotecnica che si disvela
nell’inquietudine esistenziale dei protagonisti, rappresentano l’Italia con i
due film in concorso.
Viene anche programmata, tra gli
eventi, l’assegnazione del Leone alato, “originalissimo e prezioso
riconoscimento, in autentico vetro di Murano”, in altre parole il Trofeo
Biennale di Venezia, in occasione dell’anniversario della Biennale del Cinema,
per un vincitore nella sezione Arte, Letteratura, Giornalismo, Spettacolo,
Fotografia, Moda, Industria, Commercio, Artigianato. L’appuntamento è alla Sala
delle Cerimonie dell’Hotel Excelsior, di Venezia-Lido, alle ore 20.00.
Tutte le autorità politiche,
civili e culturali, richiamate dal rintocco cinematografico del campanile, sono
presenti. Di contro, il candidato designato dall’autorevole Commissione, un
poeta, non ritira l’ambito premio.
3 novembre 1984: Principato di
Monaco
I Principi Ranieri III, Carolina, Alberto e Stefania di Monaco sono stati invitati, da padroni di casa, al più
importante riconoscimento mondiale per le arti visive e letterarie, l’Oscar di
Montecarlo, giunto all’ottava edizione. Presso la Sala Françoise Blanc dello
Sporting d’Hiver della città, alle ore 18.00, si terrà, difatti, l’assegnazione
in forma ufficiale e solenne del prestigioso Oscar, da molti considerato tra i
massimi riconoscimenti mondiali “al quale possa aspirare un artista, un Poeta o
uno Scrittore”. Il tutto avverrà alla presenza delle più alte personalità del
mondo politico, civile, artistico culturale monegasco e italiano. Seguirà
altresì, una “fastosa cena di gala nel fantastico Cabaret del Casino di
Montecarlo, con serata danzante e spettacolo di vedettes internazionali.” A ricevere l’onorato premio, tra gli altri,
per l’estrema serietà con la quale […] si dedica all’attività artistica e
letteraria, un candidato-poeta che era già stato insignito il 30 settembre del 1965, nella sala del Palazzo
Borromini a Roma, vincendo il Gran Premio Internazionale di Roma e, in seguito,
sempre nella città capitolina presso la sede dell’Accademia Tiberina, alla
presenza del già ministro Umberto Tupini
e un delegato di Andreotti, del
premio “Caterina Sbarra”, patrocinato dall’Istituto Mariotti; nel 1969 a
Taormina per il premio Taormina-Valle dell’Alcantara; nel 1971 dalla Free World
International Academy U.S.A di New York; nell’agosto del 1983 a Favara,
Agrigento, insieme a Ignazio Buttitta
e Ubaldo Cesareo; e ancora nella
città di Messina, Reggio Calabria, e in altri comuni della penisola.
Il poeta, a Monaco, non ritirerà
il premio né assaporerà l’atmosfera regale resa ancora più fiabesca dall’eterea
Grace Kelly, prima della tragica
scomparsa nel 1982.
Tokyo, 27 dicembre 1984
All’Istituto Italiano di Cultura,
l’inverno gela gli animi dei presenti più del solito. Una mano, sostenuta da
sincera afflizione, scrive un messaggio che funge da eco afona e muta risposta
alle faste cerimonie di Venezia e Montecarlo:
[…] Desidero solo darLe assicurazioni
che, anche da lontano, Nino è ricordato con simpatia e immutata stima. La sua
poesia, che è la sua voce immortale, rimane tra noi, come messaggio,
insegnamento ed esempio. A Lei e al figliolo sentite condoglianze. […]
E sì, com’era già stato
agevolmente presagito dal lettore, il “timido e incosciente” poeta
decorosamente rappresentato dalla sua opera riposta, nel mezzo dell’universo
culturale, sul monumentale scrittoio di Benedetto Croce; il visitatore che, con
il suo io, condivide gioia e dolore nello spazio surreale del lungosenna
parigino dominato dalle gorgolle di Nôtre-Dame; l’uomo che nella straordinaria
cornice di Mergellina accompagna Salvatore Quasimodo alla soglia del massimo
varco dell’Immanenza, vegliandolo per tutta la notte in una sala della clinica
“Mediterranea”, eletta a tempio del ricordo, universo emotivo, pena pulsante;
il poeta destinatario dei notevoli premi assegnati a Venezia e Montecarlo e,
infine, l’uomo per cui un mesto pensiero invade l’Istituto Italiano di Cultura
di Tokyo per la sua prematura dipartita è Nino
Ferraù, il poeta di Galati Mamertino (Me), nato nel 1923.
Di strada, il bambino che
frantumava i vetri con i sassi cinquant’anni prima ne aveva fatta. Dalle
mulattiere siciliane aveva assaporato gli alberati e incantevoli viali della
cultura europea, scucendo, ogni volta, una foglia d’indelebile apprezzamento.
Nino Ferraù che ascolta nella suggestiva intelaiatura del teatro greco di Taormina
l’analisi di un risoluto Giuseppe Saragat Presidente della Repubblica.
Altri aneddoti
Nel febbraio del 1955 la nazione
è sconvolta dalla notizia di un incidente aereo, passato alla cronaca del tempo
come Disastro del Terminillo, località in provincia di Rieti in cui un DC- 6
della compagnia “Sabena” proveniente da Bruxelles precipita a causa delle
avverse condizioni metereologiche. Tra le ventinove vittime della tragedia, la
bellissima Marcella Mariani, miss
Italia nel 1953 e musa di Luchino Visconti nel film da lui diretto Senso.
L’indiscrezione, riportata anche dal settimanale Cronaca di Alessandria
d’Egitto il 30 aprile dello stesso anno, nella sezione delle Cronache dell’Arte
e delle idee, narra che Ferraù,
pittore oltre che apprezzato letterato, aveva donato alla famiglia Mariani il
ritratto della giovane Marcella, scomparsa a soli diciannove anni.
Del Ferraù amico di Papa Pio XII, Cesare Pavese, Francesco Sapori,
Giorgio Umani, Lionello Fiumi, Frediano Frediani, della poetessa Eugenia Golinelli che alla sua morte
donò al “Padre” dell’Ascendentismo il suo appartamento bolognese e l’intero
patrimonio; del Ferraù attento indagatore dell’anima dell’amico Salvatore
Quasimodo, con il quale condivideva oltre l’interesse per la poesia anche
Modica (il poeta galatese possedeva una delle umili residenze che s’inerpicano
nel centro storico della cittadina protetta da San Giorgio); del Ferraù stimato
dal premio Nobel norvegese Knut Hamsum,
dal premio Strega Vincenzo Consolo e
fermamente apprezzato dallo scrittore Piero
Bargellini, sindaco di Firenze nei tragici momenti dell’alluvione del 1966,
e dalla cultura isolana a lui contemporanea; del Ferraù condirettore de La
Procellaria di Reggio Calabria, dell’Eco del Parnaso di Napoli, de Il Mondo
Libero di Dearborn negli U.S.A e socio onorario dell’Accademia La Fucina; del
Ferraù cui un mecenate peloritano di tutto rispetto, Ing. Giuseppe Franza,
sosteneva le pubblicazioni che piazzava perfino nei comodini delle stanze della
sua filiera di alberghi, garantendo, di fatto, un prezioso omaggio a tutti quei
docenti che negli anni raggiungevano Messina in qualità di commissari
dell’esame di maturità; del Ferraù interpretato, tra gli altri, da Arnoldo Foà, Paola Gassman, Ugo Pagliai e “venerato” dalle immagini melodiche
del flauto di Severino Gazzelloni,
al pari di uno statuario blocco marmoreo che soggiunge da epoche antiche, cosa
rimane?
È da considerarsi, in tempi di
oltrepassamento del villaggio globale, come la dea di Samotracia, monca di arti
e di testa, o integro e vigoroso come i bronzi di Riace? O, nella peggiore
delle ipotesi, ibernato nelle gelide e pigre steppe della memoria o ristagnato
nei tenebrosi abissi che accarezzano il colosso di Rodi?
E ancora …
10 giugno del 1981. Avevo sei anni. E sei anni aveva un bambino che
dal profondo buio della terra, implorando flebilmente la mamma, tendeva una
mano all’insù nella speranza di un aiuto. La storia di Alfredino Rampi, passata agli onori della cronaca come l’incidente
di Vermicino, è stata una delle prime tragedie dell’Italia anni Ottanta (la
strage alla stazione di Bologna è dell’agosto 1980) che ha sconvolto, mediante
le prime amplificazioni mediatiche della cronaca, l’opinione pubblica italiana.
Era la triste storia di una famiglia comune condannata, dall’imperizia
dell’agire umano in complicità con la sventura, a un destino talmente crudele
da richiamare Sandro Pertini
sull’orlo di quel pozzo disgraziato e profondo a interagire con gli addetti ai
lavori, con i genitori scarnificati dal dramma e con il piccolo Alfredino che
dalla voragine era stato risucchiato. Di certo, il volto della nazione era
diverso da quello attuale, meno virtuale e globalizzato, meno assuefatto dal
malcostume, dalle tragedie, dai femminicidi e dagli orrori accumulatesi in
questi trent’anni e che giungono continuamente a valanga, senza dar il tempo di
una corretta metabolizzazione, all’ora di pranzo dai deserti iracheni dei
tagliagole e da quelli più tenebrosi ed estesi che si dilatano nell’animo
umano. La storia del piccolo Alfredino tanto più ha sconvolto la mia
sensibilità tanto più è stata rilegata nelle prigioni inaccessibili dello
Château d’If della mia memoria. Sino a quando, imbattutomi nelle profondità
elegiache di Nino Ferraù, sfogliata una delle pagine, un titolo è comparso in
tutto il suo dramma: Alfredino. Il bambino fu estratto cadavere dopo un mese
circa:
Dal fondo
del freddo cunicolo/ udimmo il tuo gemito stanco/ contammo i tuoi battiti/
scrutammo il tuo respiro./ Cielo e terra si contesero/ venti chili di carne
fanciulla/ e l’utero della terra/ non volle restituirla alla luce./ Un piccolo
angelo ferito,/ lacerato/ dal terriccio dentato/ di pietre/ nel fango e nel sangue/ ha pagato per
l’uomo,/ ha pagato per Giuda e Caino,/ per tutti i nostri delitti,/ per i
mostri di Brescia e Bologna,/ per la nostra vergogna./ Su quel respiro sempre
più stanco/ siamo rimasti in ascolto/ ma invano/ e ora ognuno ha il suo pezzo
di cuore/ rimasto con te, nel profondo,/ sepolto./ Cristo moriva con le braccia
aperte./ Tu muori con le braccia alzate. /Muori, perché nessuno/ha potuto
salvarti. / Nessuno: nemmeno gli eroi. / Eppure oggi sei tu, sei tu che oggi
/devi salvare noi. (Alfredino di Nino Ferraù).
RIPRODUZIONE RISERVATA
SEGUIMI CON GLI RSS Feed
Commenti
Posta un commento