SU UN’IMMAGINARIA PANCHINA TRA VENTI DI ZAGARA E DI PANDEMIA DIALOGANDO CON PAOLO BORROMETI di Luciano Armeli Iapichino
Per chi, come me, vive nel cuore del Mediterraneo, in Sicilia, ripensando alla sua storia millenaria, ai suoi uomini migliori, ai suoi martiri, ai suoi mandorli, alle sue architetture arabe e barocche, alle arsure, tra l’olfatto di ginestra e di zagara, e possiede un genoma per così dire “insulare”, nuotare, specialmente in periodi tristi come questi, dentro quella dimensione tipicamente nostrana fatta di aneddoti, sapori dell’anima, orizzonti eoliani e infinite storie, è cosa naturale. È vitalità. È sicilianità. È pensiero che nasce dalla visione di un sagrato, di una piazza, di un cappero, da un’espressione dialettale. Troppe civiltà. Troppe eredità. Sterminati stimoli.
Un tempo c’era la corrispondenza epistolare, certamente più affascinante, per l’attesa, per l’inaspettato, per la calligrafia di chi aveva speso del tempo a scriverci e che delineava, anche, la fotografia del mittente, con i suoi occhi, il suo pensiero, il suo tormento, le sue felicitazioni, le sue fibrillazioni interiori. Oggi ci affidiamo a una tastiera, a una cuffia, a una turbo-connessione per riassaporare le fascinose abitudini di un tempo.
Ieri ho investito delle mie sollecitazioni Paolo, Paolo Borrometi, un siciliano che stimo, una delle rare penne di ciò che rimane del giornalismo d’inchiesta scevro da qualsiasi logica di appartenenza al sistema, alle cordate, alle convergenze personalistiche dei “mascariatori.”
Con lui ci siamo confrontati sul mondo di ieri e di oggi.
Partendo ovviamente dallo stato di salute dell’informazione tra notizie di parte, fake news e omissioni.
Non è facile rispondere a questo pungolo, mi risponde Paolo; la pandemia, il covid, hanno complicato la situazione e purtroppo i social network sono propinatori di gravissime fake news. Abbiamo visto addirittura come Donald Trump nel corso delle ultime elezioni, quelle di quattro anni fa, abbia drammaticamente usufruito della possibilità di sfruttare le fake news. Però, poi, ci sono anche tutte quelle omissioni che a volte sono ancora peggio delle fake news. Troppo spesso ci troviamo dinanzi a un’informazione eccessivamente faziosa, che cerca di orientare per scopi non nobili l’opinione pubblica. Tutto questo è un grande problema, quello che si estrinseca nell’articolo 21 della Costituzione e che non è soltanto il diritto/dovere del giornalista a informare, ma è, anzitutto, il diritto del cittadino a essere informato. È lì la chiave di volta.
E come vedi la situazione globale in piena pandemia tra crisi politiche, debolezze delle democrazie, sofferenza e disperazione che avanza?
Ritengo che, mai come adesso, chi ci rappresenta dovrebbe avere un senso alto di responsabilità, mettere di lato la partigianeria e tentare in ogni modo di risolvere i problemi rassicurando e non fomentando l’odio e le divisioni, cercando di aiutare la sofferenza delle persone. Pare, a volte, che questo stretto rapporto con la morte, a cui già da un anno siamo strettamente legati e che si manifesta tra immagini e sofferenza, depressione e disperazione sociale, sia passato in secondo piano in quella che è la consapevolezza interiore di questa tragedia. Che è ancora, purtroppo, molto in divenire.
Assuefarsi alla morte, alla sua immagine, alla paura, al suo pensiero, al dolore che comporta agli altri, aggiungo io, è ciò che di più terribile potesse capitare all’uomo. O forse, questa sorta di rassegnazione dinanzi all’impotenza e al destino ci fa comprendere come necessario sia riprogrammare la dimensione esistenziale. A partire dalle piccole cose.
E cosa mi dici sul Borrometi culturale più che giornalista? Quali sono state le tue letture preferite che hanno lasciato un solco nella tua anima?
Sono veramente tante. Io amo i classici, i grandi classici. Ho letto non so quante volte la Divina Commedia; non so quante volte i Promessi Sposi, non so quante volte i libri di Gesualdo Bufalino e di Leonardo Sciascia, quindi dai grandi letterati agli uomini di cultura della nostra terra che nella loro vita ci hanno donato un segno tangibile di ciò che fosse la cultura. Vedi nel nostro Paese c’è stato qualcuno che ha detto che con la cultura non si mangia; io in tanti momenti di sconforto ho curato la mia anima con la cultura, con la lettura. L’ho trovata fondamentale! Sono, comunque, un grande lettore: dai quotidiani la mattina di carta fino al tentativo di divorare i libri che ho davanti.
Un’ultima domanda. Anzi un nome: Leonardo Sciascia.
Sciascia per un siciliano, per un giornalista, per una persona che ama la sua terra, è un uomo di cultura straordinario, un pensatore eccelso, un precursore dei tempi. Però ho l’amarezza; l’amarezza di vedere come ancora oggi il suo pensiero sia preso da fazioni e fatto proprio. Ritengo, invece, che Leonardo Sciascia sia patrimonio di tutti e quando penso a lui non penso a quell’articolo, a quel titolo dell’articolo, che poi lui stesso ha più volte smentito e che viene utilizzato come una mannaia a volte a destra, a volte a sinistra. Penso invece a quella bellissima foto di Leonardo Sciascia a pranzo con Paolo Borsellino, a quella riconciliazione in un momento difficilissimo, ovvero in un momento in cui le parole di Sciascia erano state utilizzate contro Giovanni Falcone, contro Paolo Borsellino, contro quelle donne e quegli uomini che erano realmente in prima fila. Leonardo Sciascia, “il” siciliano, non “un siciliano”.
Nell’attesa di leggere ancora qualcosa di Sciascia, io invece, caro amico mio, ho appena finito di leggere Marrani del filosofo Donatella Di Cesare. Grazie Paolo.
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