Quando ero bambino non volevo fare il chierichetto. Per due semplici motivi:
- Il primo. Avevo paura delle bare e delle urla dei familiari del de cuius (il rito funebre siculo imponeva la disperazione teatrale più estrema possibile), per cui mi nascondevo aggrappato e terrorizzato dietro la tunica dell’arciprete Savio che mi riportava, puntualmente, dinnanzi al feretro di forza unitamente all’acquasantiera.
A siffatto terrore si univa, sempre da protocollo, l’incipit della marcia funebre accompagnato da un urlo squarciagola della serie: “Gioiaaa saluta u quarteri...”
- Il secondo. Portare la ghirlanda era sempre più remunerativo che fare il chierichetto. A ogni modo, mia madre garantiva per quest’ultima opzione quando il prete telefonava. Andavo ovviamente in perdita di gelati o bibite.
E poi, fu quello il momento in cui ho scoperto le qualità taumaturgiche del limone. Dinanzi al cimitero, dopo la cerimonia funebre in chiesa e la processione di rito (circa 2 km) sino all’ultimo saluto, la vedova veniva puntualmente colta dai cosiddetti “stirrinchi” e iniziava a barcollare. I familiari più vicini, al grido “u limuni, u limuni, u limuni”, tiravano fuori dalle tasche mezzo limone e lo spiaccicavano dritto in faccia per “resuscitarla”. Fine della storia. O meglio, tutti di corsa dentro la Seat tipo 127 di padre Savio, puntualmente da qualcuno parcheggiata al cimitero, con Padre Sciortino e gli altri chierichetti per rientrare in paese. E via agli insulti tra i due uomini di Chiesa. Momenti unici e inenarrabili che ho già confessato a memoria ai loro successori.
Solo per sdrammatizzare un po’.
Storie di ordinaria quotidianità di un paese che fu: Galati Mamertino.
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