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L'AMBULATORIO

Dopo pranzo, con le magliette e il muso ancora sporchi di salsa, ci si vedeva all’ambulatorio, il ritrovo delle simpatiche canaglie, il cui cortiletto era il nostro stadio da calcio. Una porta era stata disegnata nel muro; l’altra era l’inferriata che dall’altro lato si affacciava sulla strada dinanzi alla caserma dei Carabinieri. Spesso si trasformava in un lazzaretto, con musi sdentati, ginocchia sbucciate e “tumpuluni”. Fin quando Ciccio, incazzato, se ne andava via con il pallone, che era il suo, o quando arrivavano i più grandi esordendo prepotentemente con: “o iocu o sburdu u ioco!” “O gioco o rompo il gioco!” Una volta il pallone entrò dalla porta della caserma, aperta qualche attimo prima della pallonata dal maresciallo con l’espressione sempre incazzata, e quella fu l’ultima volta che lo vedemmo. Lo sostituimmo con un altro più “dannato” e dannifico Super Santos: un’altra pallonata frantumò per l’ennesima volta i vetri di una finestra del piccolo ambulatorio e l’impiegato, don Vincenzino, che in fondo ci aveva già perdonato tante altre bischerate, quella volta mostrò tutta la furia di un licantropo. Poi “ci fu costruito”, per noi ragazzini del quartiere, il tempio del calcio, il nuovo “stadio”, immenso, imponente, con la fontanella a doppia uscita per dissetarci all’occorrenza: il Parcheggio, o meglio la grande area di sosta dei pulmann della locale ditta di autolinee. E da allora fummo “i ragazzi del parcheggio” con tanto di bosco annesso. E fu l’inizio di tutto. Anche dell’iscrizione al campionato dei quartieri, perché anche noi avevamo il nostro “degno” campo da calcio come i ragazzi del “Serro”, quelli della “Chiazza”, quelli dei “Pilieri” e persino quelli del “Canaleddu”, il cui campo era lungo la strada e l’altezza della porta era costituita da un filo fissato con due chiodi tra le case nel punto più stretto della carreggiata. Quando arrivava Peppino intonavamo dalla gioia la parodia del pezzo di Venditti: “ Peppino Peppino, gran ...! Un giorno costruimmo una capanna nel bosco: era il nostro Fort Apache, una via di mezzo tra una palafitta, la botte di Huckleberry Finn e il nulla. Il nostro capo non era il generale Custer ma Zorro, così abbiamo immortalato e marchiato a vita Giacomo. Mia madre, a sera, ululava a squarciagola il mio nome: “Luciaaaaannnooooooooooo”, “ attiaaaa Luciaaaanooooo” a cadenza regolare, come una sirena stonata e minacciosa, un urlo sentito persino dai paesi limitrofi. Era il tempo ultimo del rientro a casa. Un giorno anticipai io in fretta e furia il ritiro dai campi di battaglia. Dondolandomi su una catena che vietava l’accesso al cantiere di una ennesima cattedrale nel deserto mai realizzata, l’ospizio, girai all’indietro e mi bucai il testolone; correndo e piangendo giunsi a casa insanguinato e, come si suol dire, ci “furunu l’autri”. E poi di corsa alla guardia medica per i punti di sutura. Non distante dall’ambulatorio c’era la campagna delle delizie: “na pumera”, “na fraccuchera” e la divina “ciarasera”, rigorosamente in una proprietà privata, quella della Villa Margherita. Poco più in alto c’erano i castagneti. Pianificavano spesso l’assalto alle ciliegie. Nel tardo pomeriggio, in gruppi di quattro/cinque, iniziavamo l’ascesa verso la vetta dei frutti proibiti con fare tipico e astuto delle tigri sugli alberi. Sì le Tigri di Mompracem. La razzia delle ciliegie durava ore, sino all’attacco di diarrea. Un giorno accadde l’imprevedibile. Il vecchio guardiano del podere, incazzatissimo, ci sorprese sull’albero che era pure abbastanza alto. E lanciarsi dall’alto per fuggire dal satanasso era decisamente improponibile. Ci restammo, dopo una trattativa gravida di minacce e insulti reciproci, sino a tarda sera: - “Attia scinniti i docu chi vi rumpu stu bastuni de corna”. - “Nchiana vecchiu, “nchiana vastasu !!!” 
Ci salvarono i genitori. To be continued 

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