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27 GENNAIO, SPECIALE CAMPI DI CONCENTRAMENTO: ADOLF EICHMANN E JOSEF MENGELE di Luciano Armeli Iapichino e Antonio Baglio

 

  

Nel secondo appuntamento dello speciale Campi di concentramento vengono tracciati i profili di due protagonisti dell’orrore nazista: Adolf Eichmann e di Josef Mengele, rispettivamente a cura di Antonio Baglio e Luciano Armeli Iapichino. Oggi dinanzi alla disaffezione e al disinteresse per certi argomenti, per gli ebrei, per la loro storia, il loro sterminio, (già molte volte le nuove generazioni hanno palesato una sorta di insofferenza alle sollecitazioni della memoria) si è aggiunta una pericolosa sottovalutazione di fenomeni socio-politici che, usciti dalla condizione di latenza, si annidano nell’accettazione involontaria e menefreghista di un prototipo umano distratto dall’eccesso utilitaristico e non disposto all’approfondimento. L’attualità ha già offerto gli stessi inquietanti segnali del passato velati da una fragile e apatica predisposizione all’indifferenza.

La memoria sembra aver smarrito la sua funzionalità.

 


Adolf Eichmann tra “banalità e verità del male”


Inviata a Gerusalemme, in qualità di corrispondente per conto del “The New Yorker”, a seguire il processo che vedeva imputato Adolf Eichmann come uno dei massimi responsabili dell’esecuzione del piano di sterminio degli ebrei, la filosofa ebrea Hannah Arendt ha contribuito a fissarne nell’immaginario collettivo l’idea di un grigio burocrate, autentica incarnazione della “banalità del male”. Nei suoi resoconti sul processo, riuniti nel libro Eichmann in Jerusalem, pubblicato per la prima volta nel 1963 e destinato a una vasta e duratura eco in tutto il mondo, così tratteggiava la figura di Eichmann: 

  

La giustizia vuole che ci si occupi soltanto di Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf Eichmann, l’uomo rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente per proteggerlo: un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul banco (neppure una volta si volgerà a guardare il pubblico) e disperatamente cercherà (riuscendovi quasi sempre) di non perdere l’autocontrollo, malgrado il tic nervoso che gli muove le labbra e che certo lo affligge da molto tempo.

 

A dispetto del profilo assolutamente ordinario, persino “banale”, di questo “burocrate dell’Olocausto”, il ruolo di Eichmann nell’ideazione e organizzazione della macchina logistica che doveva condurre alla cattura e al trasporto degli ebrei sparsi in tutta Europa nei lager nazisti per la “soluzione finale” fu di primissimo piano e gli effetti del suo operato devastanti per la sorte di milioni di persone. Incarnò a pieno titolo la funzione di “volenteroso carnefice” di Hitler, per usare una espressione forte ma efficace di Daniel J. Goldhagen in riferimento all’attiva partecipazione dei tedeschi “comuni” alla macchina dello sterminio.

È vero infatti che Eichmann non raggiunse mai i vertici della gerarchia nazista o dello Stato tedesco, tanto da non comparire tra coloro che furono processati a Norimberga. Arrestato in un primo tempo dagli Alleati, era stato addirittura liberato e, grazie agli aiuti di un presule altoatesino, era riuscito ad ottenere un passaporto della Croce Rossa internazionale per espatriare in Argentina. Lì avrebbe vissuto, insieme alla moglie e ai figli, dapprima sotto false sembianze, attenuando però nel corso degli anni le cautele fino a quando la sua presenza a Buenos Aires, divenuta nota in ambienti tedeschi, non sarebbe stata segnalata al governo israeliano. L’operazione coperta, condotta da agenti del Mossad, il servizio segreto israeliano, che nel maggio 1960 avrebbe portato alla sua cattura, ha assunto contorni epici, dalla straordinaria valenza morale per un popolo intero, così provato dalla Shoah e assetato di giustizia. A distanza di anni si materializzava la possibilità di portare a processo in un’Aula di Tribunale, e per di più nello Stato d’Israele, uno dei massimi responsabili della pianificazione dello sterminio ebraico, inchiodandolo alle proprie responsabilità. Perché nel frattempo, grazie alle dichiarazioni di numerosi testimoni e di funzionari del partito nazista via via catturati, si era venuto a delineare chiaramente il ruolo chiave esercitato da Eichmann nell’ingranaggio burocratico e della logistica di trasporti di milioni di ebrei, vittime dei rastrellamenti perpetrati in ben 18 paesi e tristemente destinati ai lager nazisti. A tal punto che la sua cattura rappresentò un obiettivo prioritario anche rispetto alla concreta possibilità di prendere, sempre in Argentina – divenuta rifugio dei nazisti in fuga alla fine della guerra-, Joseph Mengele, il famigerato “angelo della morte”.



Peraltro Eichmann non era mai stato un fanatico della prima ora del nazismo. Nato in Germania, a Solingen, nel 1906, si era ben presto trasferito a Linz, in Austria, interrompendo il corso naturale degli studi per dedicarsi al lavoro di meccanico e poi di addetto dell’industria di estrazione mineraria. Anche la sua conversione alla politica era avvenuta relativamente tardi e lo stesso ingresso nelle file delle SS non gli aveva consentito una immediata scalata gerarchica. In altre parole, pur divenendo un ufficiale non sarebbe stato mai, al pari di Goring, Himmler, Heydrich o Goebbels, tra i principali esponenti della Germania nazista, né avrebbe fatto parte della cerchia ristretta di Hitler. Tuttavia l’apprendistato svolto, nel 1938, a Vienna nell’espulsione degli ebrei avrebbe costituito una sorta di prefigurazione di un ruolo ben più incisivo volto al sistematico prelievo e alla deportazione degli ebrei. Fu presente alla riunione di Wannsee, il 20 gennaio del 1942, decisiva per l’accelerazione della “soluzione finale del problema ebraico”, dove si distinse per il suo zelo burocratico. Da quel momento sarebbe stato investito del coordinamento di tutti i vari dipartimenti coinvolti nello smistamento dei “carichi della morte”, divenendo di fatto uno degli esecutori materiali della Shoah.

In fondo, egli rappresentò un tassello rilevante nel processo di sterminio organizzato dai nazisti, che si poggiò – è bene evidenziarlo – sull’apporto non solo del personale di partito, ma della struttura amministrativa statale, oltre che di quella delle forze armate. Più settori concorsero all’organizzazione, esercizio ed “efficienza” della cosiddetta “macchina dello sterminio”, come ha sottolineato Hilberg. Certo, se da un lato è assodata la partecipazione convinta ai piani di sterminio da parte dei membri del Partito nazista e in particolare dei suoi corpi paramilitari, le SS, non bisogna dimenticare, per altro verso, il coinvolgimento dei cosiddetti “uomini comuni”, mossi da dinamiche conformistiche, già in qualche modo plasmati dall’ideologia antisemita diffusa anche in Germania, ma non solo, a partire dalla fine dell’Ottocento, ed estremizzata da Hitler dopo la fase traumatica della Grande Guerra.

 


Se la storia di Eichmann resta indelebilmente fissata, nell’immaginario collettivo, al profilo tracciato nel reportage della Arendt, è vero che pubblicazioni più recenti ci consegnano un ritratto più complesso del criminale nazista. Lungi dall’accreditare l’immagine del grigio e ordinario funzionario, mero e fanatico esecutore degli ordini superiori, veicolata in parte dallo stesso gerarca nazista, in realtà si insiste maggiormente sulla sua spietatezza, crudeltà e smodata ambizione. È il caso del volume di Bettina Stangneth, che in Eichmann before Jerusalem pone l’accento sulla consapevolezza e la chiara volontà di operare il male da parte dell’ex ufficiale nazista, evidenziata da una condotta, tutt’altro che banale, in cui emergevano la pervicace e ostinata minuziosità nella tenuta della contabilità dei trasporti “della morte” e un costante atteggiamento di disprezzo e di odio razziale, mai rinnegato, nei confronti degli ebrei. Inoltre la Stangneth lo addita come abile manipolatore sociale che, presentandosi al processo con un atteggiamento artatamente dimesso, sperava in questo modo di salvarsi la vita.

Così non sarà. Com’è noto, riconosciuto colpevole per crimini di guerra, persecuzione degli ebrei dettata da motivi razziali e altri capi di imputazione, Eichmann sarebbe stato giustiziato, tramite impiccagione, nel 1962. Calava così il sipario sulla vicenda di uno dei principali nefasti “architetti” della Shoah, triste e demoniaca incarnazione del male.

 

Antonio Baglio (Università di Messina)

   


   

Josef Mengele, un cane alla banchina.

 

Poteva capitare che ti dicesse:

“Vieni qui” e che trovasse

 in te qualcosa di interessante.

(Un sopravvissuto)

 

Prima della stesura di questo articolo, ho letto con attenzione alcune testimonianze di sopravvissuti dei blocchi in cui operò Josef Mengele, la Selezione, disseminate in letteratura alla ricerca di una logica, di un che di razionale, comprensibile, umano. Le ho lette e rilette, quasi in maniera perversa, sadica e irrispettosa dell’umana soglia di tolleranza e di sopportabilità, come quando l’incosciente scalatore sfonda irrazionalmente i limiti delle sue forze nella cosiddetta death zone a quota 8.000 nonostante la consapevolezza della morte certa. In quelle pagine a essere in ipossia, insieme alla dignità umana, è proprio il senso dell’esistenza.

Ho cercato di “camminare” dentro la mente del Dottor Morte, nei meandri della sua perversione, nell’attuazione del male, alla ricerca di un senso, di un perché, di un’ambizione, di una decodificazione del perverso rapporto medico-boia o di quell’overdose ideologica che lo ha guidato. Nulla! Nulla di ciò che umanamente rimanda alla voce spiegazione è possibile avvicinare al satanico selezionatore e ossessivo sperimentatore dei lager nazisti.    

 


 

L’elegante, premuroso, raffinato, sadico e cattolicissimo Josef, laureato in medicina nel 1938 con una tesi sulle Ricerche genealogiche su casi di labbro leporino, gnatoschisi e palatoschisi, convolato a nozze con la figlia di un noto accademico, giunse ad Aushwitz nel maggio del 1943. Aveva trentadue anni e aveva già dato il suo contributo alla grande madre Patria sul fronte orientale. Riprodusse fedelmente all’interno del lager l’istituto di Patologia tipico dei nosocomi più importanti di Berlino, di Monaco, di Francoforte, di Bonn. Libri, microscopi, eleganti poltrone, schedari, poster anatomici nella stanza adiacente al tempio della morte: la camera di dissezione. Sì, Josef Mengele era un maniaco della dissezione.

È Miklos Nyiszili, medico ed ebreo ungherese deportato e sopravvissuto ad Aushwitz, divenuto assistente di Mengele, nel suo Aushwitz: A Doctor’s Eyewitness Account, New York 1960, a fornirci i dettagli degli ambienti medici: vi era un “tavolo di dissezione in marmo lucido […], rubinetti di nichel […], tre acquai di porcellana […].

Il sadismo del pioniere della satanica eugenetica nazista si è palesato nelle manifestazioni più disparate accompagnato dal suo inconfondibile fischiettio e distacco. Gli ufficiali stessi, alla presenza di Mengele nel lager, toglievano il disturbo rientrando prima del solito nelle loro case, dalle loro mogli, dai loro figli. L’ideologica isteria collettiva nazista veniva rappresentata dal medico sin oltre le loro possibilità.   

Proviamo a circoscrivere una parte del perverso inventario dalle testimonianze degli internati:

  •  Umiliazioni e uccisioni dirette durante le selezioni alla banchina;
  •   Sadicamente e in accordo con le SS, accompagnata con un sorriso, vi era l’inversione del significato  dei segnali e in particolare del pollice su o giù;
  •    Durante le selezioni l’estetica dei deportati poteva fare la differenza;
  •    Rassicurazioni per chi arrivava già particolarmente debilitato con la promessa di lavori leggeri come l’aria (la gassificazione immediata);
  •    Iniezioni di fenolo per accorciare le lunghe file;
  •    Neonati gettati direttamente nei forni e nei fuochi all’aperto;
  •    Dissezioni istantanee per dirimere le controversie diagnostiche con altri medici del blocco;
  •    Cura ossessiva per la guarigione di gemelli sopravvissuti alla difterite nello studio della sifilide, uccisi   poi per studiare i corpi all’esame autoptico.
  •    Obbligo di rapporto sessuali tra gemelli per verificare se nascessero gemelli;
  •    Separazione degli scheletri dalla carne mediante bollitura;
  •     Iniezioni di blu di metilene in occhi marroni (con conseguente strazio per le vittime) per modificarne il  colore;
  •     Brutali metodi di sterilizzazione;
  •    Brutali metodi di trapianto di midollo osseo.

 


 

Questa è solo una piccola ma significativa parte del connubio tra il dinamismo professionale del mostro e lo pseudo-scienziato, tra pseudo-ricerca e disprezzo della vita, tra il giuramento di Ippocrate e la banalità del male. Questo era lo speleologo alla ricerca delle qualità negative a tutti i costi.

L’abilità di Josef Mengele, più di altri i medici nazisti, alcuni dei quali dopo la liberazione dei campi di concentramento scelsero la strada del suicidio, consiste nella sua ineguagliabile capacità di non cloroformizzare anche la sua coscienza.

Nessun sussulto umanizzante, nessuna sospensione della sua mostruosità, nessun congelamento del suo distacco, nessun inciampo del suo sadismo. Nessun limite bestiale alla sua ricerca sperimentale. Nessuna irregolarità nella sincronica azione della sua roncola.

Josef Mengele, morto in Sudamerica da uomo libero, ha incarnato l’esemplare più nobile del missionario dell’ideologia e dell’ortodossia nazista, il segugio per eccellenza, l’ingranaggio perfetto di un’incessante macchina di morte.

Mengele è la Bibbia delle linee guida della teoria della razza pura da seguire al passo e senza perdita di tempo.

Nel suo giornaliero rapporto con la morte, per certi aspetti, è andato oltre l’incarnazione di guida spirituale della perversa visione nazista impersonata dallo stesso Fuhrer. Ha disposto della vita e della morte nella quotidianità immanente, nella pratica giornaliera, nella dimensione terrena in cui si materializzano le volontà delle divinità: Mengele è stato il Diavolo fatto uomo.

I suoi occhi sono stati più infernali dei furibondi cani lupo tenuti a fatica sulla banchina.

Era lui il cane. L’onnipotenza cagnesca. Oltre ogni dantesca immaginazione dei gironi infernali.

Questo esemplare di ghigliottina umanizzata ha lacerato, stordito, innacquato l’umana razionalità al punto di spingere intere masse di uomini oltre il suo tempo a inneggiare, nonostante tutto, ancora una volta, all’avvento di nuovi sistemi totalitari. Ecco la beffa.  

Ciò che fa più paura di Josef Mengele è la sua mente nazifascista sopravvissuta ancora oggi.

Il suo disprezzo per la vita umana è visibile ogni giorno nell’apparente normalità travestita da eticamente corretto, eticamente accettabile nell’indifferenza e nella distrazione del vuoto quotidiano.                 

 

      

Ewa, la ragazza con il braccio a pendolo (di Luciano Armeli Iapichino)      

La ragazza, raggomitolata, era seminuda. Il gelido ferro della sedia freddava le sue fragili membra erodendo ogni tentativo di chiudere gli occhi. Pungeva, disturbava. Era quasi mezzanotte. Le mancava il calore di suo fratello Lukasz. Erano gemelli. Ed era stato lì con lei sino a pochi attimi prima. Con gli altri, poi solo silenzio. Adesso era rimasta sola. Nessuna voce. Le teneva compagnia il busto di un manichino anatomico. Un’altra figura era stampata in un poster colmo di didascalie e in cui s’intravedeva l’ossatura scheletrica velata da muscoli. Più in là, sotto la finestra, s’infilava un alito di vento appuntito come le colate di ghiaccio sotto i tetti. Con Lukasz si erano solo appoggiati le teste l’una accanto all’altra. Nessuna parola, nessuna domanda per quell’attesa, solo ricordi. Era una dimensione lobotomizzante. Come sempre. Dei genitori si erano perse le tracce la sera stessa del loro arrivo da Varsavia, alla banchina. Era rimasto forgiato nei suoi occhi l’ultimo sguardo della madre che l’aveva accarezzata torcendo il collo per quanto possibile prima di sparire dietro una struttura sopra la quale dei soldati, con una strana maschera, si dimenavano continuamente. Loro, i gemelli, erano stati prescelti e affidati alle cure di una dottoressa, Anne, anche lei polacca. Erano stati mesi duri per tutti. Di vuoto. Sì, il vuoto era la condizione psicologica dominante, come degli automi smarriti che si nutrivano giornalmente di macabro. Il continuo sovrapporsi visivo dello strazio a quello del cuore aveva portato a un’atipica assuefazione. Tutto era divenuto normale. Maledettamente normale. La sfumatura delle emozioni era stata annientata. Sopravvivere era diventato il problema. La fine tardava, se ne stava nascosta gongolando come quando si gioca a nascondino e si gioisce dietro l’ostacolo che rende invisibili mentre qualcuno tenta di scovarci.

Anne aveva pensato a tutto. Come una sorella. Quella mattina era stata un po' strana, aveva assunto un atteggiamento scontroso, distaccato. Le poche volte che l’aveva incrociata all’interno del blocco non le aveva rivolto neanche lo sguardo. Era stata tesa Anne, tutto il giorno, fugace, inavvicinabile, alle prese con i suoi schedari e la sua routine fatta di somministrazioni e appunti. Adesso era lì, nell’altra stanza dove uno alla volta erano entrati Lukasz e gli altri gemelli del blocco che poi, forse, si erano addormentati o erano rientrati nei dormitori da qualche altra parte.

Ewa, questo era il suo nome, trascorreva quell’attesa pensando a Elzbieta, la sua amica del cuore. Le mancava tanto. Le mancava tutto. E tutto, sperava, sarebbe tornato come prima, che mamma e papà sarebbero venuti per riportarla a casa. Era solo questione di tempo. Un brutto sogno iniziato alla vigilia di Natale. Poi, su quella sedia, gli occhi lentamente si chiusero tra palle di neve festanti.

Anne aprì la porta e prima di svegliarla le baciò la testa.

-          “Vieni, tocca a te, il Dottore è pronto per la visita!”

Non era la prima né sarebbe stata l’ultima: le misuravano tutte le sue parti e poi ancora, ancora e ancora. Sperava solo di non subire quell’ago infilato dietro l’orecchio come l’ultima volta. Aveva pianto per due giorni. L’unica anomalia di quella sera era stato il silenzio degli altri che non vide più.

-          “Adesso Ewa spogliati e sdraiati sul tavolo” – disse Mengele.

Il nudo corpicino si depose dignitosamente su una lastra di gelido marmo accecato da quattro cerchi di luce bianca che annebbiava le sagome e i movimenti dei presenti. Nessuna vergogna. Poi furono preparate due siringhe: una da 10 cc di evipan e una da 5 cc di cloroformio. Ewa non si accorse di nulla. Era talmente spossata e assonnata che non la infastidiva neanche il fondo marmoreo ghiacciato. La luce paradossalmente oscurava il tutto. Sentì solo una puntura: la prima. Poi si addormentò. La seconda, il cloroformio, il dottore la iniettò nel ventricolo sinistro.

Ewa si contrasse. Il suo braccio oscillò lateralmente come il pendolo della sua stanzetta a Varsavia.

Mengele iniziò la dissezione. Era l’ultima della giornata.

Accompagnata da una lacrima di Anne. Unico segno di umanità.

L’unica traccia di un perché senza risposta.

 


Luciano Armeli Iapichino (docente e scrittore)

Riproduzione riservata

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Commenti

  1. Complimenti ad entrambi, un abbraccio

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  2. Avevo 13 anni quando fu catturato Eichmann e ricordo tutto chiaramente, un nome soprattutto, Simon Wiesenthal, l'uomo che aveva dedicato la sua vita a consegnare alla giustizia i criminali nazisti fuggiti e sopravvissuti.
    Interessantissime le ricostruzioni delle atrocità e agghiacciante il ricordo di Ewa da parte dello scrittore Luciano Armeli Iapichino.

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  3. ricostruzioni ineccepibili di due personalità agghiaccianti, che colpiscono emotivamente il lettore e inducono a riflettere su quanto siano indispensabili le doti di solidarietà, empatia e sensibilità per la sopravvivenza della razza umana

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