Mitologia e filosofia, Elena e la fugacità millenaria del tempo, cultura, rover e pandemia nella raffinata analisi della Prof.ssa Domenica Sindoni, docente di latino e greco al Liceo Lucio Piccolo di Capo d’Orlando che ringraziamo. Per i nostri lettori un intreccio speculativo di notevole fattura che affonda le sue radici nella sconfinata acribia della studiosa siciliana.
“Noi abbiamo esiliato la bellezza; i Greci per essa hanno preso le armi”
Albert CAMUS, L’esilio
di Elena, 1954
È ormai sotto gli
occhi di tutti che la nostra civiltà, che si proietta a grandi passi verso il
futuro sulla scorta delle leggi della scienza e dell’economia, ha decisamente
ridotto la sua considerazione delle discipline
umanistiche. È opinione condivisa che, in un momento di crisi economica
e sanitaria, sia più sensato fare investimenti nel campo tecnico-scientifico
(formazione, ricerca, creazione o potenziamento di strutture) che in quello
artistico-letterario; nel sentire comune non si capisce più “l’utilità” di
studiare latino per 5 anni, sapere cosa abbiano detto i filosofi del ‘600 o affrontare
la lettura di un’opera d’arte medievale.
Come diceva Gaetano Salvemini, però, la “cultura generale” è un “superfluo indispensabile”, che
fa sì che ci sentiamo “esseri umani e non delle macchine specializzate”. È un
gioiello prezioso che illumina le linee pur semplici dell’abito; è un balsamo
rigenerante che cura le ferite dello squallore quotidiano; è la consapevolezza
della vera bellezza, quella che si può tuttora riconoscere tra le rovine del
Partenone come sul volto di una donna ancora affascinante nonostante l’avanzare
dell’età.
Questa mitica bellezza,
a cui gli antichi tenevano tantissimo, aveva un nome: Elena. Era la
donna più incantevole del mondo, contesa tra Oriente e Occidente, per la quale
i Greci combatterono la guerra di Troia; personaggio-simbolo che ha
attraversato l’immaginario collettivo di tutti i tempi, rimasto vivo fino a
oggi.
Omero, che l’ha “inventata” e ne ha consacrato l’assoluto fascino con i suoi
immortali versi, ci spiega che a Troia Elena
è certamente molto ammirata da uomini e donne. Tutti ne constatano la rara
avvenenza; ma non tutti approvano la sua presenza nella comunità. È rispettata
per volere dei capi; ma i personaggi di secondo piano o le persone comuni non
la amano, perché riconoscono in lei la causa della sciagurata guerra decennale e
vorrebbero liberarsene.
Gli anziani alle porte Scee dicono di
lei:
“Non è vergogna che i Teucri e gli Achei schinieri robusti,
per una donna simile soffrano a lungo dolori:
terribilmente, a vederla, somiglia alle dee immortali!
Ma pur così, pur essendo così bella, vada via sulle navi,
non ce la lascino qui, danno per noi e pei figli anche dopo!”[1].
Priamo e i capi la onorano e la proteggono, Ettore incluso; la gente comune invece quando la vede si incanta
per un attimo, ma, a conti fatti, ritiene che sia meglio mandarla via, per
un’utilità generale.
La bellezza è un fattore aristocratico in Omero, è
appannaggio di pochi eletti che ne apprezzano il valore e lo difendono, anche a
costo di gravi sacrifici. L’indigente
deve pensare a come arrivare alla fine della giornata, si accontenta delle sue cose
povere ma utili; come conseguenza ha pensieri minimi e per questo non viene
coinvolto nei processi decisionali.
Un rapporto più “democratico” con la bellezza si ha con l’avvento della polis.
Ne è un esempio il pensiero del grande retore e oratore Isocrate, che nel suo “Encomio” loda Elena come una donna dai grandi meriti.
Lungi dall’essere la sciagurata adultera dello stereotipo tradizionale, per lui
è la “bellezza” stessa per la quale i Greci, coalizzatisi insieme, hanno preso
consapevolezza di essere “Greci” e “amanti del bello”, e si sono armati contro
i barbari rozzi che l’avevano rapita e per questo erano inorgogliti: il mito
infatti sfocia nella storia, che annovera ben due conflitti degli Elleni contro
i vicini Persiani. Anche lo storico Tucidide aveva fatto dire a Pericle: “amiamo
la bellezza con naturalezza, amiamo il sapere senza rammollirci” (II, 40,1).
C’è dunque una grande consapevolezza: l’identificazione di
bellezza-sapienza-grecità, che Isocrate svela perfettamente nel suo encomio. Per quest’ultimo il popolo greco sarà libero
(e superiore agli altri) fino a quando difenderà contro ogni barbarie la sua
identità, che si esplicita nel binomio bellezza/sapienza = καλοκαγαθία.
Isocrate dimostra così i meriti di Elena:
lottando per lei i Greci (e l’Europa) si sono uniti e hanno sempre mantenuto
l’indipendenza dai Persiani (e dall’Asia); Elena
ha dato il via allo sviluppo delle arti, perché grazie a lei Omero scrisse Iliade e Odissea
e dietro di lui si espressero tutti gli artisti, anche nel campo della musica e
delle arti figurative. Elena dunque
diventa la Grecia stessa, è la rappresentazione della sua superiorità in virtù
della sua cultura.
La bellezza per Isocrate ha anche un potere, non fisico ma etico:
“proviamo invidia nei confronti di coloro che ci superano per intelligenza o
per qualche altra qualità (…); invece verso coloro che sono belli, subito, non appena
li vediamo, siamo ben disposti e non rifiutiamo di metterci al loro servizio
come se fossero dei” (Enc. Elena 56). “E disprezziamo e chiamiamo
adulatori coloro che si lasciano irretire da qualche altro potere, mentre
riteniamo ‘persone di buon gusto’ coloro che sono schiavi della bellezza”
(57).
“Perciò oggi è indecente proclamare che siamo figli
della Grecia. Oppure ne siamo i figli rinnegati”.
Risuonano dunque di
grande attualità queste parole di Albert
Camus del 1954, che scriveva ancora: “la nostra Europa, lanciata alla conquista della totalità, è figlia della
dismisura. Essa nega la bellezza come nega tutto quello che non esalta. E, per
quanto in modo diverso, esalta una sola cosa: l'impero futuro della ragione.
Nella sua follia, essa allontana i limiti eterni e, nello stesso istante,
oscure Erinni le si avventano sopra e la straziano”.
“Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa
han preso le armi. (…) Il pensiero greco si è sempre trincerato nell'idea di
limite. Non ha spinto nulla all'estremo, né il sacro, né la ragione, perché non
ha negato nulla, né il sacro, né la ragione. Ha tenuto conto di tutto,
equilibrando l'ombra con la luce.”
“Mentre Platone comprendeva tutto in sé, l'assurdo, la
ragione e il mito, i nostri filosofi, che hanno chiuso gli occhi sul resto, non
contengono che l'assurdo o la ragione. La talpa medita”[2].
Il nostro presente si
sta scollando dal suo passato,
dimenticandone i preziosi insegnamenti di armonia e limite. In nome di
una ricerca della perfezione in tutti i campi (scienza, economia, giustizia, educazione
ecc.) ci siamo affidati esclusivamente alla ragione, la quale, lungi dal darci l’esattezza che cercavamo, ci
ha relegato nella solitudine delle nostre affollate città, che arrediamo con
opere di vetro e acciaio dalle geometrie ardite ma gelide, dove viviamo in
corsa tra un lavoro stressante e un tempo libero di stordimento. Siamo connessi
a miliardi di persone, ma “soli” davanti a un terminale internet. Ci sentiamo
“liberi” di muoverci ed esprimerci, ma ci stiamo rendendo conto che basta un
micidiale microrganismo per chiuderci tutti dentro casa. Pretendiamo allora che
la ragione debba trovare delle soluzioni ai nostri problemi, ma dobbiamo
arrenderci al fatto che i luminari delle più nobili discipline scientifiche
spesso navigano a vista.
Mηδὲν
ἄγαν, “nulla di troppo”: gli antichi sapevano già che l’uomo ha dei limiti; per questo
Socrate dichiarava che l’unica forma di sapienza che lui potesse avere è
l’ammettere di non sapere. “Abbiamo esiliato la bellezza”, dunque; abbiamo
ritenuto obsoleta la bellezza ereditata dal passato e ci siamo messi alla
ricerca di qualcosa di diverso, infrangendo
le “regole” di armonia ed equilibrio dell’oracolo di Delfi e invocando
una libertà portata alle estreme conseguenze, all’eccesso appunto.
Elena è invecchiata per noi, e stiamo pensando di mettere in soffitta tutto il portato di bellezza (letteratura, filosofia, arte) del nostro passato. I Greci non l’avrebbero permesso. Per questo il grande poeta contemporaneo Ghiannis Ritsos ha trasportato Elena in una casa del Novecento un po’ polverosa, piena di vecchi e cascanti ricordi di un passato splendido, vedova (Menelao è morto da qualche tempo), senza più amici o amanti che vadano a trovarla. L’unica compagnia che ha sono le sue cameriere, le quali, come un po’ noi oggi, si burlano di lei e della sua vecchiaia, sfregiando le sue belle cose e infierendo sul suo bel viso, facendola così morire, giorno dopo giorno[3]. I Greci non l’avrebbero mai permesso.
E nemmeno i nostri
antenati Romani. Ciò che noi definiamo “cultura generale”, o “cultura” tout
court, in latino ha una denominazione molto chiara e inequivocabile: humanitas,
umanità. È l’inclinazione naturale a interessarsi del prossimo sol perché è un
essere umano come me (Terenzio); è la
capacità dell’uomo di distinguersi dagli animali in virtù della dote divina
dell’intelletto (Sallustio); è il
prodotto di un processo educativo che contempli una formazione a 360°, tale da
rendere l’uomo consapevole di far parte di una società organizzata e di farsi
carico del suo progresso onestamente e responsabilmente (Cicerone). Per i Romani, dunque, essere colti ed essere uomini era sostanzialmente
la stessa cosa.
Sarebbe bello allora non fare più distinzioni tra formazione scientifica
e formazione umanistica, perché la scienza nasce dalla filosofia e la filologia
è una disciplina rigorosa quanto la matematica; perché la conoscenza della
letteratura ci rende medici più attenti verso il paziente, la contemplazione
delle opere d’arte ingegneri più creativi, lo studio dei classici scienziati
più razionali; perché la scienza non è “dell’uomo” (poiché non la controlla
completamente) ma “per l’uomo”. Come è possibile vantarsi dei successi
tecnologici che hanno consentito lo sbarco su Marte della navicella Perseverance,
se ancora non riusciamo a far sì che milioni di bambini sulla Terra non muoiano
più di fame?
È vero che Elena “ha qualche millennio di troppo”
all’anagrafe, ma è ancora in una forma smagliante: non è ricorsa alla chirurgia
plastica per nascondere le sue (poche) rughe e la possiamo ancora ammirare come
una bella signora nei testi e nelle opere d’arte che il nostro passato ci ha
tramandato. Fatti e situazioni sono ambientati apparentemente in un contesto
molto diverso dal nostro, ma la sostanza è che la natura umana è sempre la
stessa e non c’è molta differenza tra il comportamento degli Ateniesi durante
la peste del 430 a.C. e il nostro nella pandemia del Covid 19 d.C. “Riconciliarsi
con la bellezza” significa dunque fare pace con il nostro passato; maturare
consapevolezza delle grandi potenzialità dell’uomo ma al contempo accettare
serenamente i limiti di questa privilegiata condizione. Il primo passo verso il
vero progresso.
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